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Quando i palloncini galleggiano: la recensione di IT dei Nerd Attack

By Film, NerdPensiero No Comments

L’adattamento cinematografico di Andrés Muschietti del romanzo di Stephen King, It, è sorprendentemente vicino all’adattamento di Rob Reiner del 1986 di un altro romanzo di Stephen King: Stand By Me. In entrambi i film, un gruppo di ragazzi preadolescenti corre intorno alla periferia di una piccola città, legandosi durante le lunghe giornate estive e notturne. In entrambi i film, uno di quei bambini ha un terribile padre abusivo; un altro ha perso di recente un fratello, e i genitori scioccati dalla perdita hanno per lo più perso il rapporto con i figli e soprattutto con la realtà. I protagonisti bambini sia in Stand By Me che in It sono emarginati, in gran parte ignorati e costretti a trovare conforto l’uno nell’altra. Sono tutti cacciati da un gruppetto di feroci e pericolosi bulli – bambini più grandi che sono annoiati con la loro città sonnolenta e vittima di altre persone (esempio padri violenti). Entrambi i gruppi di ragazzi partono per cercare un cadavere e, lungo la strada, diventano l’appoggio emotivo l’uno dell’altro, con tutta l’intensità e la semplicità idealizzate che Stephen King mette sempre nei suoi racconti legati all’infanzia. In entrambi i film sono racconti sugli ultimi giorni di innocenza prima che la realizzazione e le responsabilità dello “essere adulti” li travolga. Ma solo in uno di questi film vede i ragazzi affrontano un clown killer muta-forma.

Il film fa alcune comprensibili cambiamenti alla storia originale, in primo luogo, divide la storia in maniera netta tra la parte giovanile e adulta, relegando al capito uno, cioè questa pellicola, esclusivamente al racconto dei ragazzi e al loro primo incontro con IT, preannunciando dunque il capitolo due, in cui i ragazzi ormai adulti dovranno affrontare per la seconda volta il malefico Clown.
Altra modifica è il periodo, anziché ambientare la storia alla fine degli anni sessanta, la storia si svolge negli anni 80, scelta che indica la volontà di far occhiolino a due specifiche categorie di spettatori: i “giovani d’oggi” e gli adulti che sono cresciuti guardando la versione televisiva di IT degli anni 90, scelta che tutto sommato non dispiace.

Alcune delle libertà registiche che il film si prende sono la totale assenza dei rituali indiani magici, con cui i ragazzi scoprono chi è realmente IT e da dove proviene, e, anche questa comprensibilissima, l’assenza scena sessuale tra i ragazzini stessi. Per il resto IT è un film che rispecchia in maniera più che accettabile il racconto di King. Ma inevitabilmente, ridurre la storia dei ragazzi in un film di 135 minuti comporta un taglio di un sacco di tempo di carattere individuale, fino al punto in cui molti dei Losers si fondono insieme. Alcune brutte e confuse modifiche suggeriscono una versione più lunga della storia in cui i protagonisti più trascurati hanno più tempo sullo schermo, ma così com’è, l’intera caratterizzazione di Stan è “un ragazzo ebreo con bar mitzvah che si avvicina”, e Mike è “un ragazzo nero che vive in un azienda agricola.”

La prima morte del film si verifica nella sequenza di apertura, come un clown terribile che si chiama Pennywise (Bill Skarsgård) attrae un ragazzino chiamato Georgie Denbrough in una trappola mortale. Mesi dopo, il fratello di Georgie Bill (Jaeden Lieberher, da St. Vincent e Midnight Special) è ossessionato nel trovare il corpo di Georgie e porta i suoi amici Ritchie (Finn Wolfhard, già visto in Stranger Things), Eddie (Jack Dylan Grazer) e Stan (Wyatt Oleff) nei guai mentre cercano le fogne per qualche segno del ragazzo. Mentre altri bambini vanno persi. Quando il gruppo, autoproclamatosi come “The Losers’ Club” (il club dei perdenti), si unisce al nuovo ragazzino e storico amatoriale Ben (Jeremy Ray Taylor), il quale li informa che il tasso di omicidio di Derry, la cittadina in cui si svolge la storia, è sei volte la media nazionale e i ragazzi scompaiono a un tasso ancora maggiore.

Uno ad uno, il gruppo – che comprende anche una ragazza, Beverly (Sophia Lillis) e il ragazzo di colore Mike (Chosen Jacobs) – incontra Pennywise, il Clown in diverse forme mostruose su misura per i loro timori personali. Presto, capiscono che gli adulti di Derry non faranno nulla a riguardo, e spetta a loro combatterlo.

Il ruolo di Pennywise, il Clown Ballerino, un insaziabile e maligno predatore inter-dimensionale i cui atteggiamenti e soprattutto la cui risata è inquietante come lo era quando lo interpretò Tim Curry nel 1994, è affidato a Bill Skarsgård, figlio di Stellan, che con il suo forte accento svedese aggiunge un che di grottesco ad un abile performance. Certo, è vero che Skarsgård è aiutato da un make-up più estremo e macabro, mentre Curry con solo un blando sorriso sui denti gialli e affilati come rasoi riusciva a far gelare il sangue nelle vene, ma non si può avere tutto.

Il cast di giovani attori è convincente e ottimamente diretto. Jeremy Ray Taylor e Sophia Lillis meritano una particolare menzione, come il ragazzo intelligente e grasso con una cotta adolescenziale, che è sorprendentemente tenera da essere credibile, e come la ragazza dura con un segreto spiacevole e oscuro. Ma tutti i sette dei bambini sono ben rappresentati e danno buone prestazioni, e vedono attraverso i loro occhi, Pennywise come una vera minaccia – un incubo infantile improbabilmente manifestato nel mondo reale.
Per i Nerd è 4 occhiali su 5.

 

La La Land: tra sogni ed emotività. La nostra recensione

By Film, NerdPensiero No Comments

In una Los Angeles avvolta dalla rassicurante atmosfera onirica e fiabesca che contraddistingue ogni musical sentimentale degno di stima (vedi Moulin Rouge!) le vite in stand by di due sognatori squattrinati sono, inevitabilmente, destinate a incrociarsi e scuotersi con estremo vigore.

Sì, perché nella fabbrica di stelle più proficua del globo terrestre, la stessa in cui tutt’oggi si sente forte e chiaro il ruggito della vecchia Hollywood gloriosa, Mia e Sebastian sono moralmente obbligati a “vivere il sogno” e noi spettatori a lasciarci abbindolare di buon grado. Questo è La La Land, scritto e diretto da Damien Chazelle, candidato a 14 premi Oscar.

La prima nota di merito va ai due protagonisti per la maestria con cui ci trascinano nel loro scoppiettante universo emotivo, facendo piroettare la nostra fantasia a passi di danza.

La seconda spetta al regista e alle scelte tematiche, o meglio, metacinematografiche, dal momento che l’intera pellicola è un inno all’amore per la celluloide e per tutto ciò che le gira intorno. Infatti, la dimensione cinematografica investe ogni cosa, lasciando intendere senza troppe riserve che la sola realtà meritevole di considerazione è quella proposta sul grande schermo.

Non a caso, l’unico modo per ricongiungere le strade di Mia e Sebastian è quello di travolgerli nella spirale cinematografica della migliore tra le loro esistenze possibili, la stessa che la blanda quotidianità ha messo a dura prova ma che lo schermo ha eroicamente salvato.

Il terzo e ultimo elogio va a una delle figure a noi più care e familiari: quella del nostalgico ostinato, condannato a vagare tra i leggendari fantasmi del passato, ferito dall’indifferenza altrui e dall’incedere irrispettoso della modernità. Una sorta di vecchio marinaio postmoderno, perdutamente innamorato della storia che è costretto a raccontare. E come ogni albatro che si rispetti, il jazz ha richiamato a sé il suo marinaio Sebastian, allontanandolo una volta per tutte dal compromesso che lo avrebbe reso felice ma incompleto.

Eppure, grazie alla scenografia prodigiosa e alla determinazione con cui i protagonisti esortano lo spettatore a credere nelle proprie passioni (ben venga in un mondo fatto di qualunquismi e cinismo imperante!) è impossibile parlare di un mancato happy ending.

Ecco perché La La Land ha colpito nel segno scommettendo sul sogno.

X Men Apocalypse: la nostra recensione

By Film, NerdPensiero

Che anno meraviglioso per essere un cinefilo ed un Nerd, nel giro di poco più di due mesi sono usciti ben tre film basati su personaggi nati sulle pagine dei fumetti. Ma non è tutto oro quello che luccica. Ecco la nostra recensione di “X Men Apocalypse”.

L’ultimo capitolo della saga degli X Men è un film difficile da apprezzare, ma anche incredibilmente facile. L’episodio precedente, “X-Men: Giorni di un Futuro Passato”, a parte essere una più che decente trasposizione di uno delle storie più iconografiche dei fumetti dedicati alla razza mutante, è stato anche una fresca, piacevole e coerente avventura che ha continuato il franchising prodotto dalla Fox. La stessa cosa non può essere di Apocalypse, sebbene entrambi i film sono diretti da Bryan Singer e sceneggiati da Simon Kinberg, Apocalypse lascia in bocca un sapore strano. Il ruolo principale e più e di rilievo è affidato proprio ad “Apocalisse”, interpretato da Oscar Isaac ( con viso e corpo completamente coperto protesi), un arci-nemesi faraonica, altrimenti noto come En Sabah Nur, il primo mutante della storia. Quando Apocalisse ricompare dopo più di cinque millenni dopo il suo seppellimento accidentale nella valle del Nilo, decide di riprendere la sua missione di…. incredibile ma vero, conquistare il mondo, umano in questo caso.

X Men Apocalypse 2

Il franchise di “X-Men” ha avuto i suoi alti e bassi, indubbio è il fatto che con la nuova storyline, iniziata con Prima Classe la Fox ha intrapreso un cambio di rotta, che fino a questo momento sembrava la scelta più azzeccata. Purtroppo X Men Apocalypse perde quell’equilibrio delicato tra storia, effetti speciali e giovani leve di attori. Questo nuovo capitolo della saga crea, o meglio allarga il profondo divario tra gli intenditori dei fumetti e gli spettatori cinematografici che cercano qualcosa di più in una saga di supereroi che l’incessante parlare della potenza dei singoli personaggi. Ma il film ha delle lacune di storia che non possono essere ignorate. Come la presenza di personaggi che da soli potrebbero risolvere il problema ma vengono “tenuti a freno” fino all’ultimo momento possibile o ancora la riscrizione completa di altri personaggi, amati dal grande pubblico e mal utilizzati nella pellicola (ad esempio Angelo/Arcangelo) Come in precedenti episodi, una delle principali preoccupazioni è la persecuzione di mutanti — i mutanti buoni, come il team degli X-Men, che utilizzano i loro superpoteri per il bene dell’umanità.

X Men Apocalypse 3Ma Apocalisse, vuole purificare il nostro povero pianeta sfruttando il potere mutante per i propri fini malvagi. Egli vede i mutanti e soprattutto il telepatico Professor Charles Xavier (James McAvoy), come il mezzo per un fine che è stato sognato fino ad allora solo da Google o Steve Jobs— controllare ogni mente nel mondo. Quando Apocalisse penetra Cerebro, sistema di rilevazione mutante del professor X, Charles dice, con una miscela di orrore e di esaltazione, “Non ho mai sentito un potere come questo prima!”. Michael Fassbender riprende i panni di Magneto, il disilluso mutante sopravvissuto all’Olocausto, altrimenti conosciuto come Erik Lehnsherr. Anche Jennifer Lawrence torna a indossare i panni, e non il make up, di Mystica, con una interpretazione che non è proprio quello che ci si aspetta da un premio oscar come lei. Ma allora perché questo film piace, pur avendo tutti gli elementi per essere un film a malapena mediocre? Probabilmente perché è uscito un mese e mezzo dopo il disastroso Batman vs Superman e tre settimane dopo l’appena decente Captain America Civil War, due film che hanno promesso molto ma alla fine non hanno saputo mantenere le proprie promesse. Se X Men Apocalypse fosse uscito nei cinema a molta distanza dagli altri due probabilmente sarebbe stato molto più deludente di quanto è stato.

Per i nerd è 3 ½ occhialini su 5

occhiali nerd 3.5 su 5

Batman vs Superman: Dawn of Justice – La nostra recensione

By Film, NerdPensiero

Salve amici Nerd, ecco la recensione del film Dc che tanto abbiamo atteso Batman vs Superman Dawn of Justice.

La Dc Comics non è certo nota per essere salita a bordo il treno dei film sui supereroi al momento giusto, ma con questo titolo tutti speravano nel miracolo, che a parer nostro non è arrivato. Il film per la regia di Zack Snyder è partito in quarta per restare fermo appena fuori dalla linea di partenza. Ma procediamo per tappe. Batman vs Superman è in realtà un sequel de L’Uomo d’Acciaio, alla fine di quel film, Superman salva Metropolis, e il mondo intero, dalla piccola milizia di kriptoniani superstiti capitanati dal cattivissimo Generale Zod, nello scontro parte della città viene distrutta e centinaia o migliaia di persone perdono la vita. Questa è la premessa principale che spinge Batman a prepararsi, e cercare, lo scontro con questo alieno, venerato quasi come un dio in terra, prima che si possa “annoiare dell’umanità”. Fino a qui tutto fila liscio, ma da questo punto in poi la storia si complica.

Non voglio rovinare il film per chi non l’ha ancora visto, ma personalmente non mi ha colpito. Elementi positivi ce ne sono e meritano di essere presi in considerazione: Ben Affleck è superbo nell’interpretazione di Bruce Wayne, ma il copione non rende giustizia ad un personaggio che viene considerato il più grande detective vivente. Superman (Henry Cavill), d’altro canto si comporta come un alieno sulla terra che cerca di integrarsi, il che avrebbe senso, se non fosse cresciuto fin da bambino nelle campagne del Kansas. Wonder Woman (Gal Gadot) è il personaggio che tutto sommato risulta più credibile e coerente in relazione con il materiale di base. Lex Luthor (Jesse Heisenberg) è decisamente una mente brillante, che ricorda sotto molti punti di vista Joker piuttosto che la nemesi di Superman. Ma la struttura narrativa e le scelte del film in generale lasciano perplessi, come ad esempio la scena onirica di Batman e la visione di Flash del furto che fanno storcere il naso.

Il problema del film è che cerca di condensare un intero universo, quello della Dc Comics dentro un unico film, mentre la Marvel ha avuto ben 12 film a disposizione con cui costruire e esplorare il loro universo. Chi non ha letto I fumetti e va a vedere Batman vs Superman Dawn of Justice si trova davanti un film graficamente perfetto, ma a livello di storia trova un prodotto contorto, con un chiaro senso di “mancanza”, cioè di qualche elemento mancante per poterlo capire appieno. Chi invece è fan dei fumetti e conosce già I personaggi, si ritrova davanti una cacofonia di elementi che se a primo impatto possono sembrare eccezionali, a guardare meglio cozzano l’un l’altro, creando un film poco gradevole e molto confusionario.

Per i nerd è 2 occhialini e mezzo.

occhiali nerd 2.5 su 5

The Revenant – Redivivo: tra natura e sopravvivenza

By Film, NerdPensiero No Comments

The Revenant – Redivivo (tratto da una storia vera) racconta l’epica avventura di un uomo che cerca di sopravvivere grazie alla straordinaria forza del proprio spirito.

In una spedizione nelle terre americane, nel Nord degli odierni USA, l’esploratore Hugh Glass (Leonardo Di Caprio) viene brutalmente attaccato da un orso che difendeva i propri cuccioli portando il suo stesso gruppo di cacciatori a darlo per morto.

Nella sua lotta per la sopravvivenza, Glass sopporta inimmaginabili sofferenze, tra cui anche il tradimento del suo compagno John Fitzgerald (Tom Hardy). Mosso da una profonda determinazione e voglia di vendetta, Glass supera un duro inverno in solitaria, nonostante le ferite fisiche e psicologiche, e riesce a trovare la pace interiore dopo che realizza il proprio ideale.

Scritto e diretto da Alejandro González Iñárritu (Birdman, Babel), The Revenant – Redivivo ci pone degli spunti importanti di riflessione riguardo la natura umana, la forza di volontà e la cultura degli indiani americani.

Il film gira intorno al personaggio ed all’interpretazione magistrale di Leonardo Di Caprio anche se spesso si ha l’impressione che la vera protagonista di The Revenant sia la natura incontrastata e vergine, maestosa e quasi impossibile da identificare in questo moderno mondo dove la civilizzazione e l’industrializzazione hanno portato alla distruzione della maggior parte della stessa.

The_Revenant_4La pellicola ha già portato a casa 3 Golden Globes, i più importanti, cioè Miglior regia (Iñárritu), Miglior film drammatico e Miglior attore in un film drammatico (Di Caprio) inoltre ha ottenuto 12 candidature per gli Oscar2016, risultando il film con più nomination. Onestamente chi scrive pensa che almeno 5 li porterà a casa tra cui Miglior film, il tanto cercato Oscar per Leonardo Di Caprio, miglior fotografia. Possibile anche la vittoria, che sarebbe la seconda consecutiva dopo quello ricevuto per Birdman, per Alejandro González Iñárritu per la Miglior Regia.

The_Revenant_2The Revenant – Redivivo è un film importante, probabilmente il migliore di questo anno. Ci lascia delle immagini decisamente mozzafiato, con una natura ed una purezza incontaminata, una perseveranza e voglia di vivere fatta uomo (Hugh Glass / Leonardo Di Caprio) e una filosofia di vita derivante dagli antichi indiani d’America.

“Nel mezzo di una tempesta, se guardi i rami di un albero, giureresti che stia per cadere. Ma se guardi il suo tronco ti accorgerai ti quanto sia stabile.”

Per i Nerd sono 5 occhialini su 5.

occhiali nerd 5 su 5

Daredevil: la nostra recensione sulla seconda stagione

By NerdPensiero, Serie TV

La seconda stagione di Daredevil è uscita questo scorso fine settimana su Netflix e come molti altri, ho abbracciato il modello “tutta la stagione subito” della società e mi sono piantato sul divano per vedere tutti e 13 episodi. La buona notizia? È eccellente. L’universo dei fumetti Marvel sta continuando lungo la strada più scura che ha iniziato lo scorso anno, e questa particolare visione del mondo supereroe continua a crescere e trovare i suoi piedi saldamente piantati in un mondo credibile e godibile da guardare.

New York City è di nuovo in pericolo, e il vigilante mascherato Daredevil deve affrontare nuove minacce che lo spingono al limite dei suoi poteri e della sua moralità. Dopo che l’eroe mascherato e suoi compagni ha messo in scacco Wilson Fisk, nella prima stagione, bande criminali rivali si scontrano per colmare il vuoto di potere lasciato dall’uomo che un giorno sarà il Kingpin (Fisk), ma un nuovo vigilante entra in gioco, portando con se un metodo di punizione che è più permanente di quello di Daredevil. Seconda stagione di “Daredevil”, basato sul personaggio della Marvel comics, è su Netflix ovunque in questo momento.

Se non volete nessun tipo di spoiler, vi suggeriamo di non andare avanti con la lettura.

Tutto ciò che riguarda questa stagione sembra un continuo della prima, che è fondamentalmente una cosa buona per questa serie eccellente. Charlie Cox dà a Matt Murdoch il giusto fascino e la giusta gravità impietrite che possono contagiare altri supereroi. C’è un’immediatezza alla serie che manca da alcune che ci si aspetta da un supereroe. Il Punisher di Jon Bernthal è fantastico. Il personaggio si cala perfettamente nella storia che risulta un personaggio con cui chiunque proverebbe empatia, e Bernthal ne indossa i panni con una tale naturalezza che ha sorpreso i fan più dubbioso. Jon Bernthal interpreta un grande Punisher, un uomo guidato da demoni di estrema brutalità. L’unica pecca è che ottiene il suo iconico simbolo troppo tardi, seppur in maniera epica. Elodie Yung è stata l’ultima attrice ad essere stata rivelata come attrice della serie (Elektra) ma la Yung cattura gli spettatore con la sua bravura in primis e con la sua bellezza poi.

La seconda stagione di Daredevil è interamente incentrata sulla moralità della giustizia del vigilante: o meno. Il sistema può essere attendibile per risolvere una città spezzata o se devono essere prese misure più estreme. L’azione è ancora una volta splendidamente girata, le luci al neon, e la fotografia in generale, calzano perfettamente quello che è il tono della serie, costituendo un ottimo contorno per la storia e la recitazione dei personaggi e per la città impeccabili sotto molti punti di vista. La serie inizia grosso modo pochi mesi dalla fine della prima stagione, In una New York abituata già da tempo ai “supereroi” ma adesso anche al vigilante di quartiere, tanto da chiamarlo Il Diavolo di Hell’s Kitchen.

Note particolari vanno a due scene: il primo, l’incontro tra Daredevil e Punisher è uno scontro di filosofia ispirata a un classico momento dai fumetti; il secondo è un omaggio alla prima stagione. La scena single-take della lotta tra i cattivi e il nostro eroe mentre scende le scale, è in realtà un omaggio alla famosa scena del corridoio, vista l’anno scorso Daredevil non è una serie sui supereroi… E’ LA SERIE sui Supereroi.

Per i nerd è 5 occhialini su 5.

occhiali nerd 5 su 5

Rainbow Moon – La nostra recensione

By NerdPensiero, Videogiochi

Prima di tutto, una breve ma doverosa anticipazione rivolta a tutti coloro i quali non conoscono il gioco in questione. Rainbow Moon è un titolo sviluppato da SideQuest Studios pubblicato originariamente nel 2012 su PlayStation 3 e, l’anno dopo, su PlayStation Vita. Il gioco, dopo aver ottenuto una serie di valutazioni positive, sbarca quest’anno anche su PlayStation 4 per tenere caldo il pubblico, in attesa dell’uscita del successore, Rainbow Skies, di cui ancora non si ha una data di pubblicazione certa. La versione presentata su PS4 non è però un remake/remastered o qualcosa di simile. Il gioco è un porting puro e semplice, senza quasi alcun miglioramento od aggiornamento a parte una leggera ripulitura grafica generale.


Grazie ai sub turn è possibile anche sconfiggere un esercito del genere.

Il titolo appare da subito diretto ed immediato. Una volta premuto su New Game parte immediatamente il video introduttivo che mostra il nostro eroe, ed alter ego videoludico, scaraventato all’interno di un portale dal suo acerrimo nemico. Tale portale ci fa finire all’interno di un mondo chiamato, appunto, Rainbow Moon ed il nostro obiettivo è quello di tornare indietro per chiuderlo. Questa è tutta la povera base del gioco, che in generale non brilla per originalità della trama. Le quest sono più che altro incentrate sulla risoluzione dei problemi dei cittadini che incontriamo lungo la nostra strada, problemi che una volta risolti ci permettono di andare avanti nella storia, e suddivise in Main e Side quest.


Il mondo di Rainbow Moon è presentato con una graziosissima grafica isometrica.

Appena iniziata la partita dobbiamo scegliere subito il livello di difficoltà, direttamente proporzionale praticamente soltanto al numero di ore che dobbiamo dedicare al grinding, e lo stile di gioco, che permette di avere diversi oggetti nel nostro inventario di partenza, differenziabili in equipaggiamento, pozioni curative o il nulla più totale. I nemici sono ben visibili nel mondo di gioco ma nel contempo, camminando, è possibile incappare in scontri casuali che, a differenza di altri titoli del genere, non partono in automatico. È necessario infatti premere X quando compare l’avviso dello scontro nell’angolo dello schermo per accettare il combattimento. Essi sono quelli tipici di uno strategico a turni, con la classica disposizione a scacchiera, attacchi, difesa e abilità che colpiscono entro un determinato range. All’aumentare del livello dei personaggi giocabili, in tutto tre (ed il terzo lo troverete dopo molte, molte ore di gioco) aumentano anche i sub turn ed è possibile eseguire diverse azioni durante il nostro turno.


Il numero di slot nell’inventario è ampliabile e dobbiamo sempre stare attenti alla barra della fame.

In Rainbow Moon è presente un rudimentale sistema di crafting che permette di potenziare le nostre armi ed armature tramite l’utilizzo di oggetti, ottenibili dai nemici o dalle casse sparse per il mondo di gioco. Tale azione non può essere compiuta dal nostro personaggio durante il suo girovagare ma soltanto da NPC dediti al ruolo. Oltre a loro, sono presenti anche commercianti, curatori e NPC da cui possiamo aumentare le nostre statistiche. Infatti, all’incrementare del livello del personaggio si allunga il limite a cui possiamo portare statistiche come forza, velocità, fortuna, difesa ed altre, che possiamo migliorare spendendo delle monete ottenibili sconfiggendo i mostri che ci si parano davanti. Durante le nostre partite, inoltre, dobbiamo stare attenti alla barra della fame, che scenderà inesorabilmente ed ininterrottamente ma facilmente riempibile mangiando o bevendo. Difficilmente vi trovate completamente a zero, le fiasche d’acqua si trovano praticamente ovunque.

Ben presto, però, ci troviamo subito di fronte ad un problema piuttosto grave: la noia. Rainbow Moon, almeno fino alla quarta/quinta ora di gioco, appare vuoto ed estremamente ripetitivo ed andando avanti, il tutto non viene migliorato poi di molto. L’unica cosa che impegnerà totalmente il giocatore è il grinding, l’eterno e soprattutto inevitabile grinding. Ai livelli più avanzati, la strategia è un elemento che viene messo totalmente in secondo piano dalla mole di nemici che siamo costretti a fronteggiare. Il nostro unico scopo, nelle battaglie, è potenziarsi il più possibile, sorpassare le statistiche del nemico per evitare semplicemente di morire e batterlo con relativa facilità. In compenso, le fasi di esplorazione del mondo costituiscono un efficace elemento di distrazione che ci permette di rilassarci tra una battaglia e l’altra ed impegnarci nella ricerca di qualche loot segreto. Rainbow Moon, tutto sommato, appare come uno strategico molto all’acqua di rose adatto a chi, magari, non ha dimestichezza nel genere ma non costituisce un possibile trampolino di lancio verso di esso, inducendo anzi il novizio ad evitarlo.

occhiali nerd 3 su 5

PRO

Possibilità di eseguire il cross save con le altre versioni
Grafica tutto sommato simpatica
Sistema di upgrade dei personaggi soddisfacente

CONTRO

Narrazione quasi assente
Ripetitivo
Fondamentalmente banale

Sistema – PlayStation 4

Genere – Gioco di ruolo strategico

Sviluppatore – SideQuest Studios

Distributore- SideQuest Studios

Lingua – Inglese

Multiplayer – Assente

Data di uscita – 17 febbraio 2016

The Hateful Eight: difficile da odiare, ma difficile da amare

By Film, NerdPensiero

Teste che spesso vengono fatte saltare in aria esplodendo nel classico stile alla Quentin Tarantino, ambientazione minimale e location ridotte all’osso, narrazione non lineare, dialoghi pesanti, profondi, metaforici e ridondanti, splatter, poca azione, e origini scioccanti; molto semplicemente, The Hateful Eight è uno dei migliori e contemporaneamente peggiori film di Quentin Tarantino.

Chi di noi non ricorda le storie del selvaggio West con cui siamo cresciuti guardando in televisione? Django (quello originale con Franco Nero), Il Cavaliere Solitario, Lo Chiamavano Trinità, Lo Straniero dagli Occhi di Ghiaccio, Lucky Luke… Quentin Tarantino prende tutto il divertimento del selvaggio West e prima lo sconvolge e poi lo butta via. Le sparatorie fatte con lentezza sadica. Le uccisioni sono improvvise, erratiche, brutali e quasi snervanti; ma in The Hateful Eight tutto sembra assumere un senso logico.

Questa pellicola è certamente un ritorno alle pellicole su piccola-scala per il regista Italo-Americano. The Hateful Eight è un film completamente diverso da quello che Quentin Tarantino ha fatto negli ultimi 12 anni. Dopo la pausa che ha seguito il rilascio di Jackie Brown, l’autore ha trovato la sua carriera muovendo verso quello che potrebbe essere descritto più come film ‘epocali’; impiegando la sua enorme conoscenza dei grandi western cinematografici, di guerra e le caratteristiche del kung fu, ha consegnato storie mitiche su larga scala come Django Unchained, Bastardi senza gloria, e Kill Bill. Al contrario, The Hateful Eight è, evidentemente, il suo modo di tornare alle sue origini, palesi sono i richiami alle Iene. Tarantino omaggia anche altri generi e autori, in primis Agatha Christie alla quale il regista rende omaggio sia con l’ambientazione (Assassinio sull’oriente express, gli uomini bloccati dalla tormenta di neve) che nel racconto (Dieci piccoli indiani).

Il film inizia in modo spettacolare: panorami di montagna mozzafiato che poi danno spazio ad un crocifisso coperto di neve da cui la telecamera si allontana estremamente lentamente (abbinandosi perfettamente al tema composto da Ennio Morricone) per rivelare, come è solito di Tarantino, il titolo del primo capitolo intitolato “Ultima Fermata per Red Rock “. Una diligenza viaggia nell’innevato inverno del Wyoming. A bordo c’è il cacciatore di taglie John “The Hangman” (Il Boia) Ruth e la sua prigioniera Daisy Domergue, diretti verso la città di Red Rock dove la donna verrà consegnata alla giustizia. Lungo la strada, si aggiungono il Maggiore Marquis Warren, un ex soldato nero nordista diventato anche lui un famoso cacciatore di taglie, e Chris Mannix, che si presenta come nuovo sceriffo di Red Rock. Infuria la tempesta di neve e la compagnia trova rifugio presso l’emporio di Minnie, dove vengono accolti non dalla proprietaria, ma da quattro sconosciuti: il messicano Bob, il boia di Red Rock Oswaldo Mobray, il mandriano Joe Gage e il generale della Confederazione Sanford Smithers. La bufera blocca gli otto personaggi che ben presto capiscono che raggiungere la loro destinazione non sarà affatto semplice. Per molte ragioni.

In 3 ore di film, ai personaggi è dato ampio spazio per conversare. L’interpretazione e il tono dei dialoghi fa intendere che le cose che vengono dette sullo schermo siano importanti e profonde, e per molti versi è così, ma per il pubblico il tutto risulta noioso, tediante e a volte ridondante. Gli attori, tutti, sembrano aver bisogno di fare con un bel bagno caldo e un pasto cucinato in casa, cosa che rende assolutamente credibile un film ambientato nel cuore di un inverno freddo nel selvaggio west. Però il lavoro di Tarantino è stato un po’ troppo forzato. Siamo sicuri che tra pochi anni The Hateful Eight verrà celebrato dai fan di Tarantino come il suo capolavoro più assoluto, ma oggi non l’ottava pellicola di Tarantino fa storcere il naso più che altro. Perchè i personaggi, seppur credibili sono troppo freddi, troppo calcolatori per scatenare una reazione empatica, certo è vero che nel mondo di Tarantino la violenza si perpetua con leggerezza, ma i suoi personaggi non si preoccupano della vita umana, anzi il contrario, e francamente, guardando questa pellicola non si è per niente portati a curarsi se gli odiosi otto vivono o muoiono. Per i nerd sono 2 occhialini e mezzo

occhiali nerd 2.5 su 5

Creed – Nato per combattere: la nostra recensione

By Film, NerdPensiero

Cari Nerd siamo stati a vedere Creed – Nato per combattere, ultima aggiunta alla saga del mitico Rocky Balboa.

Come tutti, incluso il protagonista della serie, l’attore Sylvester Stallone, eravamo convinti che le avventure dello Stallone Italiano fossero ormai giunte alla fine, ma così non era per Ryan Coogler. Questo giovane regista statunitense di colore però, immaginava cosa si potesse provare ad essere allenato dal mitico Rocky in persona. Ecco perchè un giorno si presentò a casa di Stallone per presentargli Adonis Johnson Creed, figlio di Apollo Creed, celebre antagonista prima e amico ed allenatore di Rocky, dopo.

Il film narra dell’ascesa di Adonis (Michael B. Jordan, già visto nei panni della Torcia Umana ne I fantastici 4, 2015) nel mondo della boxe. Adonis, che non ha mai conosciuto il suo celebre padre, il campione del mondo dei pesi massimi Apollo Creed, morto prima della sua nascita, ha la boxe che scorre nelle sue vene.

Traferitosi a Philadelphia, luogo del leggendario incontro tra Apollo Creed e Rocky Balboa, Adonis rintraccia e convince il vecchio Rocky a diventare il suo allenatore. Con Rocky al suo angolo, non ci vuole molto prima che Adonis abbia una possibilità per vincere il titolo…

La pellicola è sotto molti punti di vista un fanmade, cioè un film fatto dai fan, perchè di questo si tratta, un film, comunque maturo, attento alle dinamiche del cinema moderno, ma che rispetta, anzi rende omaggio, alla storia da cui è tratta. Coogler ci regala un film che ci porta al cospetto dei pugili più famosi che il mondo abbia mai conosciuto, aprendo contemporaneamente la strada alla nascita, o meglio alla continuazione, di un franchise. La cosa che più colpisce di questo lavoro è il rispetto con cui Rocky viene rappresentato. E poi onestamente, chi non proverebbe un pò di emozione nel vedere il buon vecchio Stallone Italiano almeno un’altra volta sul grande schermo!?

Per i Nerd è 4 occhialini su 5.

occhiali nerd 4 su 5

The Hunger Games: Il Canto della Rivolta, Parte 2 – La recensione

By Film, NerdPensiero

E’ guerra in The Hunger Games: Il canto della Rivolta, parte 2, e nel film si sente il peso di mostrare la battaglia per Capital City in ogni istante dei suoi 137 minuti di esecuzione. La storia riprende immediatamente dopo la conclusione della prima parte e non perde molto tempo a raccontare cosa è successo precedentemente a chiunque si affacciasse solo ora al franchise. Mentre la parte 1 esplorava l’uso della propaganda di guerra e la politica attorno ad una ribellione,questo è a tutti gli effetti un film di guerra. In Il canto della rivolta, parte 2 si sente la necessità di dare forza e credibilità a tali contenuti, e, anche se si tratta di un film solido, è anche il più difettoso della serie.

“Parte 2” inizia esattamente dove l’ ultimo film si interrompeva, con Katniss (Jennifer Lawrence) e il resto delle forze ribelli ad un passo dall’Attacco finale nei confronti di Capital City e del governo di Panem e soprattutto del suo leader: il presidente Snow (Donald Sutherland). Come con in molti franchising moderni, questa pellicola abbonda con un rostro di attori ormai veterani della saga, che in questa circostanza più che da supporto sembrano essere una zavorra per la narrazione, tra cui l’insipido duo di Peeta (Josh Hutcherson) e Gale (Liam Hemsworth) – i due contendenti amorosi di Katniss fin dal primo film.

Come i precedenti due film , Parte 2 è stato diretto da Francis Lawrence che , come la maggior parte registi di franchising, non è stato assunto per le sue qualità di messa in scena, ma per un lavoro: non rovinare una proprietà di grande valore. Il primo film è stato, infatti, diretto da Gary Ross , con la fotografia di Tom Stern, anch’egli rimpiazzato con il cambio di regista. E, ne il Canto della rivolta parte “ vediamo una storia che non prova a trovare un risvolto psicologico o un empatia con il pubblico. Il tutto risulta essere un apoteosi di effetti speciali senza un vero perché. Ma è questo il problema. Parte 2 non sarebbe mai dovuto esistere come titolo a sé. Le due parti de Il canto della rivolta sarebbero dovuti essere un film solo. Il bisogno Hollywoodiano di “fare più soldi”, così come in altri franchising a parte Hunger Games, sta portando a sventrare le storie in favore del dollaro, producendo gradualmente pellicole sempre più insipide, a meno che non vengano viste tutte di fila.

In definitiva Il canto della Rivolta, parte 2 ottiene prestazioni convincenti dal suo impressionante cast, ma si sente anche un senso di oppressione legato alla gravità della sua storia. Il film si concentra su Katniss come un modo per descrivere gli orrori e i danni che genera la guerra. Piccolo appunto va fatto sul un semplice dato, questo è di fatto l’ultimo film di Philip Seymour Hoffman, cosa che molti hanno dimenticato. La scomparsa prematura dell’attore viene avvertita nel corso della storia, che comunque, grazie ad un semplice stratagemma riesce a sopperire a tale mancanza. La storia tutto sommato è abbastanza semplice e offre una conclusione relativamente soddisfacente per The Hunger Games, che tuttavia non ispira la stessa meraviglia dei primi due capitoli.